Chapter 1 – Arrival in Finland

Well, I am not sure how to start writing about this experience in Finland. But I want to try!

Let’s say before starting that I am not an ethnology expert studying the habits and traditions of different cultures. I can talk about Finland referring to my own experience, so everything I say it’s just my opinion and it’s not the Truth about Finland. This is my own way to see things around me! But now, let’s start…

I arrived in Finland on  August the 15th and after almost two months here I am totally out of my honeymoon period so I can be more objective, or at least I think so.

I applied for an EVS Project in a School in Finland since I wanted to see myself the Education System of this northern country. Indeed, Finland Education System is considered one of the best in the World, the students here reach incredible results spending very few hours at school. Unexpectedly, I have been selected and now I am here in Seurakuntaopisto (this is the name of the school) in the little town of Pieksämäki.

But now, a step back! Because before my arrival in Pieksämäki I have to tell you about my arrival in Antaverkka, near Tampere, one of the main cities in Finland.

I landed in Helsinki the 15th of August and I spent my first night there. The very next day I reached the others volunteers nearby the Train Station of Helsinki, we were all ready for our on-arrival camp: ten days of training about Finnish culture and Finnish language but, most of all, ten days of fun. Even if we didn’t know it yet.

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On my arrival at the Camp I was very quiet, trying to keep a low profile, thinking something like”Who are all these people?”, “Why are they staring at me?”… I hope you can understand me, this is my first time abroad not as a tourist and completely alone. Yet I had no chance to keep a low profile. As soon as we arrived at the camp the staff made us break the ice with some funny activities and interesting workshops. Well, in a couple of days we were already starting to get along to each other.

During the Camp I met wonderful people from all over the World: Germany, France, Switzerland, Austria, Honduras, Japan, Taiwan, Spain, India… It was amazing talking with them and sharing opinions and ideas. I learnt a lot during these informal moments together just chatting.

But I have also to mention the workshops prepared for us by the Antaverkka’s Staff. I can sum them up in the motto “learn by doing” and their have been very useful to “survive” in the Finnish everyday life.

Tolleranza e intolleranza

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LE BUONE RAGIONI DELLA TOLLERANZA NON DEVONO FARCI DIMENTICARE CHE ANCHE L’INTOLLERANZA HA LE SUE BUONE RAGIONI (Norberto Bobbio)

L’intolleranza contiene una carica non sempre e necessariamente malvagia, può anzi avere una carica ideale. […] Questo problema è il fattore che più contribuisce a rendere meno netti i confini tra tolleranza e intolleranza e a far si che i due concetti si compenetrino tra loro, facendo comparire la tolleranza meno ‘buona’ di quanto pensassimo e l’intolleranza meno ‘cattiva’.
Quando e come qualcosa viene giudicato intollerabile?
La questione si confonde con quella immensa ed eterna della reazione del giusto al Male …. Vi è un punto di rottura oltre il quale anche il più mite degli uomini non può più restare a guardare.
Già, ma dove si colloca questo punto di rottura? […] L’impostazione pragmatica insita nel concetto di tolleranza ci fornisce un criterio… è quello che Karl Popper chiama il ‘paradosso dell’intolleranza’: se estendiamo una tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante dagli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e con essi la tolleranza. “La tolleranza infatti – osserva Wladimir Jenkelevitch – se spinta al limite finirebbe col negare se stessa”.

(liberamente tratto da I NEMICI DEL DIALOGO, Michelangelo Jacobucci)

Quando fa caldo (ma non troppo) aumentano gli episodi di violenza…

Numerosi studi hanno mostrato come l’aumentare delle temperature conduca all’aumento di comportamenti aggressivi nelle persone. Il caldo induce attivazione fisiologica, irritabilità e disagio che possono scatenare aggressività.

Harries e Stadler condussero una ricerca a Dallas, in un arco di 12 mesi, e scoprirono che più il clima era caldo e umido più aumentava il numero delle aggressioni. Questa tendenza tuttavia sembra interrompersi oltre un certo limite (24° C). Quando le temperature sono troppo elevate il numero di aggressioni tende a diminuire, probabilmente a causa della spossatezza indotta dal caldo eccesivo, che impedisce di fare qualsiasi cosa.

Il rapporto tra caldo e criminalità non vale però per tutti i tipi di crimini, è più forte infatti per l’aggressività affettiva (che ha lo scopo di spaventare) che per l’aggressività cosiddetta strumentale (intesa a scopi diversi, ad esempio fare una rapina)

Per cui, cercate di stare al fresco e non “scaldarvi troppo”.

La minaccia dello stereotipo

Dopo aver scoperto che pensare agli anziani può far camminare più lentamente passiamo alle altre conseguenze che può avere l’assimilazione comportamentale, quando lo stereotipo assimilato è negativo.

Uno stereotipo negativo comune è quello secondo cui le donne sono meno brave degli uomini in matematica. In questo caso l’effetto di minaccia dello stereotipo (Steele, 1997) può tradursi in una prestazione peggiore, portando le donne a comportarsi in accordo con quello stereotipo, cioè ad avere risultati più bassi in un test di matematica rispetto ai loro colleghi uomini.

In altre parole la consapevolezza di un simile stereotipo negativo associato alla propria categoria di appartenenza può condurre una donna ad adeguarsi allo stereotipo e ad avere veramente dei risultati peggiori in matematica! Vi sembra improbabile? Eppure è così! Soprattutto quando l’identità di genere è resa rilevante (ad esempio un professore che fa continuamente confronti tra maschi e femmine nella sua classe).

Dunque, un’altra buona ragione per non credere troppo ai luoghi comuni!

A presto

L’assimilazione comportamentale

Ovvero… quando pensare agli anziani fa camminare più lentamente.

Passiamo subito alla descrizione di questa interessante ricerca (Bargh, Chen e Burrows – 1996) in cui si cercò di verificare se fosse possibile indurre dei soggetti a comportarsi in accordo con le caratteristiche stereotipate di una categoria sociale.

Venne chiesto ad alcuni studenti universitari di riordinare delle parole in frasi grammaticalmente correte. Furono create due condizioni, nella prima le parole erano associate allo stereotipo dell’anziano (solitario, vecchio, saggio, grigio….) mentre nella seconda erano parole neutre. Finito di svolgere il compito si chiedeva agli studenti di spostarsi in un altra sala, usciti dal laboratorio però uno sperimentatore (senza farsi notare) cronometrava il tempo che impiegavano per attraversare il corridoio. Ecco i risultati:

 

grafico1in modo sorprendente gli studenti nella condizione “anziano” camminavano decisamente più lentamente. Questo fenomeno è detto ASSIMILAZIONE COMPORTAMENTALE e si verifica quando pensando ad una certa categoria si inizia ad agire in base allo stereotipo associato. Dunque non fissatevi troppo sugli stereotipi se non volete esserne influenzati eccessivamente.

Qualcosa di simile accade anche nel cosiddetto effetto di minaccia dello stereotipo. Ma questo lo vedremo in un’altra occasione.

A presto

 

 

Euristica della rappresentatività

Dato il successo che ha avuto l’ultimo post sullo Stereotipo, ho deciso di rimanere sul tema, quindi prossimamente parleremo di PREGIUDIZIO!

Oggi però, vorrei citare, come promesso, almeno una euristica, in particolare vorrei parlarvi dell’EURISTICA DELLA RAPPRESENTATIVITA’ (Tversky e Kahneman, 1973) che ha implicazioni importanti anche sul fenomeno del pregiudizio.

L’euristica della rappresentatività è un modo semplice e veloce di dividere le persone in categorie, ma facciamo subito chiarezza citando l’esperimento di Tversky e Kahneman. Siete pronti? Immaginate di trovarvi di fronte ad una cesta, dentro ci sono 100 descrizioni relative ad altrettanti professionisti dei quali 30 sono ingegneri e 70 sono avvocati. Ne tiriamo fuori una a caso e leggiamo:

“Giovanni ha 45 anni. E’ sposato e ha 4 figli. E’ piuttosto tradizionalista, accurato e ambizioso. Non ha alcun interesse per la politica e le questioni sociali. Impiega la maggior parte del suo tempo libero coltivando i suoi numerosi hobby, come il bricolage la vela e i puzzle matematici”

A questo punto vi chiedo, quanto è probabile che Giovanni sia un ingegnere? Molto? Moltissimo? In percentuale quanto sarebbe? Ci avete pensato?

In effetti questa descrizione sembra molto rappresentativa di un ingegnere, o comunque più rappresentativa di un ingegnere piuttosto che di un avvocato. E la maggior parte di noi fa riferimento proprio a questo prima di rispondere, ovvero fa riferimento allo stereotipo dell’ingegnere….tuttavia non bisogna dimenticarsi del fatto che non sempre l’abito fa il monaco. E la risposta corretta può essere solo una da un punto di vista logico: essendoci 30 ingegneri e 70 avvocati infatti, la probabilità che si tratti di un ingegnere sarà esattamente del 30%. Convinti?

Spero di si! Ma non preoccupatevi, se è vero che fare troppo ricorso agli stereotipi può avere effetti molto negativi, d’altro canto se nel corso della nostra evoluzione abbiamo sviluppato e mantenuto questa tendenza è perché a volte ci torna molto utile.

Alla prossima.

Lo stereotipo

Parlando di categorizzazione sociale abbiamo introdotto il termine stereotipo, adesso sarà interessante capire come nasce uno stereotipo, in particolare uno stereotipo negativo. Sicuramente un ruolo importante lo giocano l’apprendimento e l’esposizione sociale, ma alla base degli stereotipi negativi, che sono ad esempio associati ai gruppi di minoranza, c’è un processo specifico, la cosiddetta CORRELAZIONE ILLUSORIA, ovvero la convinzione che due variabili siano tra loro associate quando in realtà non è così.

A studiare questo fenomeno sono stati Hamilton e Gifford (1976) in un esperimento ormai classico. Essi chiesero ai partecipanti di leggere le informazioni su due gruppi A e B. Sul Gruppo A (la maggioranza) venivano fornite il doppio delle informazioni rispetto a gruppo B (la minoranza). Per entrambi i gruppi le informazioni “positive” (comportamenti desiderabili) erano il doppio di quelle “negative” (comportamenti indesiderabili).
Non c’era nessuna correlazione tra l’appartenenza al gruppo e il tipo di informazione negativa o positiva, ma nonostante questo, quando nella fase successiva veniva chiesta ai partecipanti di attribuire a uno dei due gruppi i comportamenti visti, al Gruppo B erano attribuiti più comportamenti negativi.
Perché succedeva questo?
Hamilton e Gifford ritennero che il numero di comportamenti negativi riferiti alla minoranza, essendo ridotto in numero assoluto, risultasse molto saliente a causa proprio della sua infrequenza. Non è altro che una declinazione dell’euristica della rappresentatività, la bassa frequenza di comportamenti negativi finiva per diventare rappresentativa del gruppo più piccolo.
Strano ma vero!
Alla prossima!

La categorizzazione sociale/1

Provate a pensare ad un tipo di frutta. Fatto?
Sicuri?

Scommetto che avete pensato ad una mela! O forse ad una arancia. Sicuramente non avete pensato ad un kiwi o ad un pomodoro (che è anch’esso un frutto). Perché? Perché mele e arance sono prototipiche della categoria frutta, cioè rappresentano meglio la categoria.
Ma facciamo un passo indietro. Perché usiamo le categorie? Molto probabilmente alla base c’è una ragione economica! Le usiamo per risparmiare risorse cognitive. Per esempio, se vi chiedessi di pensare ad un cane, cosa pensereste? Non certo a tutti i singoli esemplari di cane che avete incontrato nella vostra vita, che sarebbe alquanto faticoso, ma ne ricorderete solo alcuni che insieme rappresentano la categoria. Potrete anche averne una rappresentazione più astratta, indipendente dai singoli esemplari incontrati, ma che comunque faccia riferimento alle proprietà che avete riscontrato in tutti quei cani. Molto più veloce, giusto? In questo modo risparmiamo un sacco di tempo.
La categorizzazione ci permette inoltre di fare inferenze sulle cose, per esempio possiamo inferire che due oggetti hanno proprietà simili o addirittura identiche se appartengono alla stessa categoria.

La teoria classica mette dei confini molto rigidi tra le categorie, L’appartenenza ad una categoria piuttosto che ad un’altra viene decisa sulla base di alcune proprietà fondamentali possedute o meno dall’oggetto. Il problema è che noi in realtà siamo molto più flessibili nel costruire le categorie!
Ad esempio, una tigre potrebbe essere definita come “un animale carnivoro dal manto striato”, ma immaginiamo di trovare una tigre con il manto uniforme, magari perché è stato dipinto… sarebbe ancora una tigre, o sbaglio? Per la teoria classica questo è un problema. Evidentemente ci sono dei processi di pensiero diversi alla base della categorizzazione.

Una successiva teoria è stata quella del Prototipo, e così ritorniamo alla nostra mela dell’inizio. Secondo questa teoria l’appartenenza ad una categoria è stabilità in termini di tipicità rispetto ad un membro definito prototipico. Cioè più un oggetto assomiglia al prototipo della categoria più sarà per noi facile inserirlo in essa.

Così come avviene nella categorizzazione dei concetti grazie ai prototipi, anche nella categorizzazione sociale ci sono degli STEREOTIPI che ci aiutano. Ma di questo ne parleremo la prossima volta.

 

La cognizione sociale

Con Moscovici abbiamo chiuso la nostra trattazione delle regole di attribuzione causali del comportamento, possiamo così passare ad un nuovo argomento: la cognizione sociale.

La cognizione sociale descrive le modalità con le quali le persone codificano, elaborano e ricordano le informazioni nei contesti sociali allo scopo di comprendere il comportamento altrui.

Come anticipato nei precedenti articoli Heider sosteneva che le persone siano degli scienziati ingenui, ovvero che siano logiche e razionali nell’effettuare inferenze sociali. Tuttavia, come abbiamo visto, spesso non è così!

Fiske e Taylor (1991) sostengono che gli individui siano piuttosto degli economizzatori cognitivi, ogni occasione cioè è utile per risparmiare risorse cognitive, in questo senso dunque saremmo tutti dei taccagni e pur di non fare fatica siamo disposti a dare giudizi poco esatti.

Queste scorciatoie mentali che ci permettono di risparmiare energia sono le EURISTICHE. Nei prossimi articoli faremo alcuni esempi!

Prima di concludere, tuttavia, occorre dire che le euristiche sebbene siano meno precise rispetto a modalità di pensiero più logiche e razionali, ricavano risposte che molto spesso rientrano benissimo nei canoni dell’accettabilità. Secondo Kruglansky (1996) siamo in realtà dei pensatori flessibili, capaci di districarsi tra diverse strategie cognitive. Di volta in volta sappiamo scegliere (sulla base di motivazioni, obiettivi e bisogni correnti) se ricorrere a strategie di risparmio o a modalità più razionali. Siamo in altre parole dei TATTICI MOTIVATI.